In occasione del decimo anniversario del terribile naufragio avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 ottobre 2013, raggiungiamo per un’intervista Paolo Naso, consulente per i rapporti istituzionali della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), in particolare del programma migranti e rifugiati Mediterranean Hope (MH).
Cominciamo chiedendogli cos’è che ricordiamo oggi. “Commemoriamo una strage, annunciata, di 368 migranti, morti a poche miglia dall’isola di Lampedusa”. ” dice. “Non furono morti in mare per un incidente, furono morti di immigrazione, perché ormai da anni era noto che c’era una rotta pericolosissima, che aveva già prodotto stragi analoghe, ma la differenza è che quelle furono scoperte dopo. Quel giorno invece immediatamente giunsero sul luogo della tragedia pescatori, turisti, persone di buona volontà; gente normale. Furono gli occhi di una tragedia, videro materialmente le persone morire, e fecero del loro meglio per salvarne il più possibile. Alcune di queste persone portano ancora le ferite nel corpo e nel cuore di quella storia, si ricordano di coloro che hanno salvato, ma anche di coloro che non sono riuscite a salvare. La differenza con i naufragi prima e dopo è questa contingenza: il fatto che quel giorno c’erano degli occhi, dei cuori e delle mani, che hanno fatto la differenza, perché ancora oggi quelle persone vanno in giro a dire che queste non sono tragedie del mare, ma sono tragedie determinate da politiche di immigrazione, non soltanto sbagliate ma anche profondamente inefficaci e moralmente ingiuste”.
“L’isola ha diverse anime” prosegue poi, per raccontarci lo stato d’animo che vede sul posto “e non tutte comunicano tra di loro. C’è l’anima dei turisti, che letteralmente non vedono un migrante. Noi siamo qui da alcuni giorni: se non all’hotspot, non ne abbiamo visto uno. C’è un’isola che non vede le migrazioni, ma semplicemente le guarda in televisione, e cade in questa trappola ansiogena: un’invasione, un’emergenza che non c’è”.
“Poi c’è un’altra isola, nel mezzo: persone che vorrebbero fare il loro lavoro, la loro vita, e da una parte hanno un sentimento di amicizia e vicinanza con i migranti, dall’altro temono l’apparato di sicurezza, l’idea ciclicamente annunciata di un mega hotspot; quest’isola reagisce molto negativamente, ogni tanto assume delle posizioni antagoniste nei confronti del governo, ma anche delle ong e delle associazioni, perché temono che Lampedusa diventi l’isola dell’immigrazione e non del turismo.
E poi c’è una terza isola, l’isola degli attivisti, delle associazioni, che comprende anche molti Lampedusani”.
Alle 18 del 3 ottobre, presso il santuario della madonna di Porto Salvo, è previsto un incontro ecumenico.
“Il nostro evento” spiega ancora Naso “avrà luogo presso un santuario con una storia particolare; ci riuniremo con personalità di rilievo, come il presidente della FCEI, la moderatora della Tavola Valdese, vari pastori, ma anche amici dall’estero, come il Pastore Randy Mayer, che lavora lungo il confine tra Messico e Usa in Arizona, e fa lo stesso lavoro che facciamo noi a Lampedusa; lì c’è il deserto, qui c’è il mare, ma il problema è lo stesso. Ci troveremo quindi con altri credenti, e non credenti, faremo memoria, rilanceremo il nostro impegno. Questa settimana si è aperta con un convegno, e abbiamo ragionato su come fare memoria, costruire luoghi, simboli, per raccontare tra 10-20 anni l’immane tragedia di cui siamo testimoni e anche attori. La vicenda di Lampedusa è in mezzo al grande scontro tra Nord e Sud globale; il rischio è che noi non avremo le storie per raccontarla, perché i migranti passano, e quelli che muoiono non hanno una tomba. La nuova storia, quella che supera le criticità, si costruisce sulle storie degli individui”.