In questi giorni, tra i temi che agitano la politica italiana, è stata dedicata molta (ma temporanea) attenzione alla “trasparenza salariale”, sebbene non sia emersa nessuna novità puntuale in merito.
Come fa notare infatti in questo riassunto Pagella Politica, la direttiva europea di cui si sta parlando è stata votata ormai diversi mesi fa, perciò siamo già da qualche tempo all’interno della tabella di marcia per rendere questa indicazione una legge: abbiamo tempo fino al 2026.
Ma di cosa si tratta?
Per ragionarci con calma abbiamo raggiunto Giorgia d’Errico, segretaria nazionale Filt-Cgil. Il concetto di partenza, fa notare, è quello di “parità retributiva”. Il punto principale di questa direttiva è infatti quello di compiere un passo verso la chiusura del divario salariale di genere: indica il diritto, per chi intende lavorare per un’azienda, a conoscere una serie di informazioni sugli stipendi, come ad esempio la media di salario divisa per genere; in questo modo il datore di lavoro sarebbe costretto ad ammettere l’eventuale disparità di genere, e le candidate (così come i candidati) avrebbero a disposizione i dati per chiedere una retribuzione idonea.
“Secondo i dati dell’UE le donne guadagnano il 13% in meno” racconta d’Errico. “Nella vita mi è capitato di chiedere: perché? La risposta che mi viene data è che una donna tende ad assentarsi di più. Lo trovo vero ma anche aberrante. Dovremmo quindi lavorare non solo su alzare il livello contributivo, ma c’è un concetto anche culturale da modificare. Bisognerebbe lavorare sui diritti e le tutele legate alla conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita, anche per gli uomini”. In Italia infatti gli uomini hanno diritto a molte meno ore di congedo parentale rispetto alle donne (e spesso non le usano nemmeno tutte, al punto che la Cgil aveva organizzato una campagna sul tema).
“A me ha colpito” aggiunge poi d’Errico tornando al testo della direttiva “il fatto che eliminerebbe l’obbligo di presentare la precedente busta paga”, così che, se una persona ha chiuso un lavoro mal retribuito, quella cifra non può essere presa ad esempio dal futuro datore di lavoro. Questa trasparenza quindi può portare ad un maggior “confronto, su cui si può fare leva per far sì che uomini e donne partano dallo stesso punto”.
“In Italia” conclude “è altamente scontato che la donna guadagni di meno. C’è poi una contraddizione: da un lato si sente un incentivo a fare figli, dall’altro però ti ostacolo da ogni punto di vista. E nessun uomo si è mai sentito chiedere se avesse la necessità di diventare padre, mentre per le donne è molto diffuso. Bisogna lavorare anche su di noi, per capire che la maternità è un diritto, e anche un momento a cui tutta la comunità partecipa. Secondo me il tema non è così sentito perché si sta discutendo del ruolo della donna nella società italiana in un altro senso, che trovo sia il frutto di un’involuzione. Ad esempio per quanto riguarda la direttiva europea, qui ne abbiamo fatto un problema di privacy, di dati sensibili”.
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