Continuiamo il nostro viaggio in Cina. Martedì 13 febbraio la Commissione centrale per le ispezioni disciplinari del Partito comunista cinese ha annunciato che Lu Wei, fino al 2016 direttore della Cyberspace Administration cinese, è stato espulso dal Partito. L’inchiesta era cominciata lo scorso novembre. Questo però non significa che le politiche di controllo di Internet siano destinate a cambiare, anzi.
Gabriele Battaglia, da Pechino, racconta la notte del passaggio al nuovo anno, l’anno del Cane. Nella capitale cinese il divieto di botti e fuochi d’artificio è stato totale e le feste in città sono state spazzate via. Oltre il danno, la beffa: nell’aria si è sentito l’odore dei fuochi d’artificio usati nelle campagne tutto intorno.
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Foto: Gabriele Battaglia – https://www.facebook.com/gab.battaglia
Nella dichiarazione della Commissione centrale, che risale a martedì 13 febbraio, si dice che Lu Wei «ha violato in modo serio le discipline politiche e le regole ingannando le autorità centrali. Ha fatto quello che ha voluto, commentando le politiche del governo centrale con parzialità e distorsioni, ostacolando le inchieste del governo centrale; con la sua crescente ambizione ha usato gli strumenti pubblici per interessi personali e ha fatto ogni cosa per la sua fama personale». È anche accusato di aver presentato false accuse verso altre persone in modo anonimo e di aver formato delle “cricche”.
Prima della campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping nel 2012, Lu Wei sembrava essere uno degli astri nascenti della politica cinese, una di quelle “tigri” che, come nel suo caso, venivano mandate in giro per il mondo a stabilire contatti. Nel 2014, per esempio, durante un tour negli Stati Uniti Lu Wei aveva incontrato personalità della politica e imprenditori come Mark Zuckerberg di Facebook e Tim Cook di Apple.
La campagna anticorruzione non ha risparmiato neppure lui. L’offensiva di Xi Jinping verso “tigri e mosche” del Partito che si sono macchiati di corruzione o seguono uno stile di vita lussuoso ed esagerato l’ha travolto. Finora sono stati destituiti più di 250 alti membri del Partito e puniti circa 1,4 milioni di quadri e burocrati.
C’è anche chi sostiene che la campagna anticorruzione non sia altro che un regolamento di conti interno. Già nel 2014 il dissidente e analista politico Bao Tong contestava le parole pronunciate al termine del 18mo Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese, quello del 2012, quando si insediò l’attuale segretario generale, Xi Jinping.
Va comunque detto che la sostituzione ed espulsione di Lu Wei non rappresenta in alcun modo un passo indietro sulle policy di controllo di Internet: nel luglio del 2017 è stato annunciato dal governo cinese che dal 1 febbraio 2018 sarebbero state interrotte o bloccate tutte le VPN presenti sul mercato cinese, per evitare che il Great Firewall possa essere superato, in particolar modo da cittadini cinesi. Già nell’agosto del 2017 Apple e Amazon hanno hanno accettato, assecondando la richiesta del governo cinese, di rimuovere dall’App store cinese le applicazioni vpn e, per quanto riguarda Amazon, d’imporre ai suoi clienti di smettere di usarle.
L’impressione, però, è che sia come svuotare l’oceano con un cucchiaio. Non è la prima volta che vengono vietati dei servizi VPN in Cina, ma di volta in volta sono cambiate le tecniche e i servizi a disposizione. Da questo punto di vista non mi sembra che ci siano troppe differenze, almeno a livello di soluzioni adottate, rispetto a quanto viene fatto in Occidente sin dal 2000, quando vennero chiusi gli accessi a Napster, a Gnutella, poi a vari servizi di download e di streaming e infine ai server che ospitano torrent o forniscono link per guardarli.